Rosina
assistette a tutta la scena paralizzata dall'orrore, senza riuscire a muovere
un dito in aiuto del bimbo. Quando questi scomparve alla sua vista, il vecchio
si volse a lei con un fare che voleva essere suadente e accattivante ma che,
invece, gli conferiva un'espressione molto più malvagia e perfida di
quanto non avesse già. Il suono che venne fuori dalla sua bocca era
molto più simile al ringhio di una bestia feroce che alla voce di un
essere umano:
- Carina, - ringhiò con tono sarcastico - vuoi venire con me? ....
Potrai giocare col tuo amichetto. Le parole "giocare col tuo amichetto"
furono pronunciate col significato lascivo che solo certi vecchi viziosi,
degni di figurare nelle opere del "Divin Marchese", possono concepire.
Questo era il senso che una persona più smaliziata della bambina avrebbe
colto nella frase del vecchio.
- Noo! Lascialo stare! Vai via!.... Ciccio... Damiano... Papà... Aiuto!
- gridò Rosina, che finalmente era riuscita a sbloccarsi. A queste
invocazioni, il vecchio, con una risata molto simile al ruggito di una belva,
scomparve per lo stesso punto del pavimento attraverso il quale prima aveva
spinto Angelo. Fu a questo punto che accorsero Mastro Gaspare e i figli. Da
quella volta, per diverse notti, Rosina si coricò nel letto grande
col padre. Poi, lei stessa una sera insistette per tornare a dormire nella
propria stanza, con la segreta speranza di rivedere Angelo e continuare con
lui la conversazione così bruscamente interrotta. Mastro Gaspare tentò
di dissuaderla, ma la tenace insistenza della figlia lo costrinse ad accontentarla.
Per più di una settimana non accadde più nulla di particolare
a parte i normalissimi scricchiolii prodotti dalle tarme nei mobili, tanto
che Rosina cominciò a pensare di avere soltanto sognato Angelo e tutto
il resto. Allo stesso modo presero a pensarla anche il padre e i fratelli.
Ma ecco che una notte, quando tutti ormai avevano quasi dimenticato l'accaduto,
vennero smentiti. Ancora una volta furono svegliati dalle urla di Rosina.
Da quando questa aveva ripreso a dormire nella propria stanza, aveva preteso
che la finestra rimanesse completamente chiusa, perchè la luce esterna
produceva sulle suppellettili strani giochi d'ombre che le mettevano addosso
una certa apprensione, così che nella cameretta era il buio più
pesto, ma Rosina lo preferiva. Quando Ciccio e Damiano, subito svegli, seguiti
dal padre si precipitarono nella stanzetta, Rosina non si sentiva più.
Tutto sembrava in ordine... al buio.
Mastro Gaspare pensò che la figlia avesse avuto ancora un incubo e
che si fosse riaddormentata regolarmente. Tranquillizzato, sempre in silenzio,
con la sola pressione delle mani sulle spalle dei due figli li invitò
a tornarsene a letto. Mentre i due ragazzi ubbidivano, l'uomo si soffermò
ancora per qualche attimo nella stanza e fu così che il suo udito percepì
un flebile lamento proveniente quasi dal centro della cameretta. Tornò
subito indietro e sommessamente chiamò la figlia:
- Rosina...! Rosina...! Non ottenne alcuna risposta. Si avvicinò allora
al giaciglio della bambina e tastandolo si rese conto, con sommo sgomento,
che era vuoto. Con apprensione chiamò allora più forte:
- Rosina...! Dove sei...? Rispondi a papà tuo... L'unica risposta ai
suoi appelli era quel flebile lamento interrotto ora da qualche singhiozzo.
Si volse verso la stanza dei figli maggiori e chiamò:
- Ciccio...! Vieni subito qui e porta una candela accesa... E tu, Damiano
vai nello stanzino di Andrea e resta con lui chè se dovesse svegliarsi,
almeno ci sei tu a tenergli compagnia. Intanto che impartiva queste disposizioni,
spostandosi a tentoni nella stanza, seguitava a cercare la figlia senza mai
smettere di chiamarla. Si diresse verso il punto dal quale pareva avesse origine
il lamento e quando fu quasi al centro della camera inciampò nella
sedia che sarebbe dovuta trovarsi ai piedi del letto. All'urto seguì
un grido che sembrava provenire dal pavimento proprio dove Mastro Gaspare
si era fermato.
- Rosina...! Figlia mia! - urlò anche lui ormai preso dal panico -
Dove sei? - No! Via, andate via! - rispose la bimba urlando con quanto fiato
aveva in gola. - Sono io, papà tuo! Non c'è nessun altro! Ciccio
comparve sull'uscio; con la sinistra teneva un candeliere di metallo su cui
era infissa una candela accesa e nella mano destra stringeva un coltello a
serramanico. Il ragazzo, spaventato dalle grida del padre e della sorella
in particolare si era fatto la convinzione che tutto quel trambusto era provocato
da qualcuno introdottosi fraudolentemente nella stanza di costei. Aveva quindi
ritenuto opportuno armarsi per difendere a qualunque costo le vite dei congiunti
ritenuti in mortale pericolo.
- Papà! Chi è... ? Che succede...? Dov'è questo cornuto
che lo voglio ammazzare con le mie mani!!! - gridò. - Stai zitto. -
gli gridò il padre - Posa la candela a terra e vai anche tu nel camerino
coi tuoi fratelli chè sento piangere 'u picciriddu ... Ciccio non accennò
minimamente ad ubbidire al padre, ma, fermo dov'era, prese a guardarsi intorno
con circospezione, pronto a lanciarsi, coltello alla mano, contro qualunque
estraneo gli si fosse parato davanti. Gaspare gli andò incontro, gli
strappò la candela dalla mano e con uno spintone lo spinse bruscamente
fuori. Bastò la fievole luce della candela perchè, finalmente,
l'uomo scoprisse con sgomento dove fosse finita la figlia. Praticamente,
questa si trovava imprigionata all'interno della gabbia formata dalle gambe
e dalle traverse della sedia.